Non si tratta – solo – di depressione, non si tratta – solo – di ansia, e non è – solo – una dipendenza dai videogiochi. È certo che qualcosa di questo accompagni molti giovani della società contemporanea ma ciò che li accomuna è, piuttosto, un profondo vissuto di angoscia di fronte alle pressioni sociali. Ecco che, tagliare i rapporti sociali, abbandonare la scuola, chiudersi nel proprio mondo e comunicare solo in forma virtuale, appare per loro l’unica possibilità di sopravvivenza.
In Giappone li chiamano hikikomori, letteralmente “stare in disparte”, “staccarsi”, dalle parole hiku, che significa “spingere”, e komoru “fuggire”. È un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni che si ritirano dalla vita sociale per lunghi periodi (mesi, o addirittura anni), rinchiudendosi nella propria casa, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con la propria famiglia.
Questi giovani sono spinti a fuggire dal mondo, perché nella società d’oggi, del produrre e consumare, nella società del fare sempre in maniera efficiente, in cui si misura il valore di una persona sulla base del gradino della scala sociale raggiunto, il ritorno di immagine per loro sarà sempre di inadeguatezza e fallimento.
Non è certo una mancanza di volontà. Il ritiro dalle scene diventa una difesa dall’incontro traumatico con l’Altro, la sola possibile per il soggetto. Gli hikikomori scelgono di isolare il loro corpo e chiuderlo in casa, nelle loro camere da letto. Una stanza rifugio, o prigione, in cui la sola via di comunicazione con il mondo esterno avviene attraverso l’oggetto tecnologico.
Come sottolinea Fabio Tognassi, psicoanalista e responsabile dell’èquipe di assistenza psicologica domiciliare “[…]La sola soddisfazione del bisogno è di per sé depressogena in quanto ottura ogni mancanza, e quando la mancanza è otturata non c’è movimento di desiderio, ma c’è claustrazione, claustrofilia”.
Vi è dunque un mondo chiuso, un confinamento, in cui il rapporto con l’Altro non esiste e viene sostituito illusoriamente dal rapporto con l’oggetto. È in quest’ottica che va letta la dipendenza da computer, cellulari e videogiochi. L’oggetto tecnologico tappa la spinta verso il fuori, ostruisce ogni movimento di apertura verso l’Altro, portando il soggetto a richiudersi su se stesso.
E cosa accade quando il discorso sociale si modifica ed è la Legge che impone l’isolamento?
È quello che è successo nell’ultimo anno con l’arrivo della pandemia. L’appello giusto e necessario dal punto di vista sanitario arrivato direttamente dall’O.M.S. per contenere la diffusione del virus è stato da subito: “Restate a casa, limitate i contatti”. Questo confinamento da un lato ha portato a una moltiplicazione di questi fenomeni proponendosi come occasione per rivolgere lo sguardo a queste nuove declinazioni sintomatiche. D’altra parte, dal lato di chi ha fatto della chiusura un modo singolare di stare nel mondo, é venuta ulteriormente meno la possibilità dell’incontro con l’altro.
Se le cause sociali ora sono più chiare e questa pandemia ha dato l’opportunità di comprendere meglio il vissuto dei giovani che stanno attraversando un ritiro sociale, dobbiamo cogliere questa occasione e bussare adesso alla loro porta. Un intervento psicologico domiciliare può essere una possibilità di apertura, per dare un’opportunità di indagare cosa nella loro storia personale ha prodotto questo movimento di chiusura, di comprendere le cause della propria sofferenza soggettiva. Dobbiamo riconoscere quel dolore e accoglierlo all’interno di quella stanza.

Irene Bertoni